Unity in diversity, il forum aperto dal saluto di Nardella: "L'obiettivo è condividere una iniziativa corale per proteggere i nostri patrimoni culturali, affermando la cultura come strumento di pace"

Il discorso completo del primo cittadino

Si è aperto oggi con il saluto del sindaco Dario Nardella ‘Unity in diversity’, l’evento voluto dal primo cittadino a sessant’anni precisi dalla conferenza organizzata nel 1955, nel pieno della Guerra fredda, dall’ex sindaco ‘santo’, primo esempio di ‘Glocal forum’ al mondo.
Il forum, che andrà avanti fino a domenica, vedrà a Firenze 80 sindaci da 60 Paesi del mondo, soprattutto da zone di guerra, da Herat in Afghanistan a Nazareth, da Kobane in Siria a Baghdad, da Tunisi a Mogadiscio a Juba, da municipalità della Palestina a quelle degli stati balcanici, per confrontarsi sui temi della pace, della cultura, della fratellanza tra popoli. Assieme a loro interverranno premi Nobel e personalità internazionali, tra le quali anche la principessa Haya Bint Al Hussein di Giordania, ambasciatrice di pace dell’Onu e moglie del primo ministro degli Emirati Arabi, che è intervenuta stamani nel Salone dei Cinquecento. (fp)

 


Di seguito l’intervento completo del sindaco Dario Nardella:

“Il 5 novembre 1966, 49 anni fa, Firenze si risvegliò ferita a morte. Non fu una guerra ma qualcosa di molto simile: una catastrofe naturale. L’alluvione mise in ginocchio la città. I fiorentini, però, seppero rialzarsi.
Piero Bargellini, sindaco di Firenze in quei tragici giorni, ne ha sempre evidenziato l’impressione che gli fece il silenzio della gente di fronte al passaggio del Cristo di Cimabue per la via Romana, mentre l’opera d’arte veniva trasportata da Santa Croce alla Limonaia del Giardino di Boboli dove venne restaurata. Erano uomini e donne che avevano appena visto la morte, la distruzione, la violenza della natura, ma nonostante questo, racconta Bargellini, di fronte a quel capolavoro sfregiato dal fango e dall’acqua, ebbero la forza di raccogliersi in un silenzio commemorativo, quasi come se davanti ai loro occhi stesse passando un vero corpo martoriato.
Il Cristo del Cimabue, prima vessato dalle intemperie e poi rinato grazie all’incredibile lavoro di restauro, fu il simbolo di quei giorni, il simbolo di una città che non volle e non seppe arrendersi.
E vorrei aggiungere che forse nient’altro che un’opera d’arte poteva esserlo. L’arte, con la sua valenza allegorica, è ciò che è capace di muovere la nostra pietas, di scuotere le nostre coscienze, di condensare in un frammento la nostra storia, in una frase: l’arte è ciò che ci rende umani.
Il musicista israeliano Daniel Barenboin ha detto che ogni grande musica, e più in generale ogni opera d’arte, ha due facce: una per il proprio tempo e una per l’eternità. Credo sia proprio così e prova ne è il luogo dove siamo. Guardiamoci intorno: in questo Salone siamo circondati dai dipinti del Vasari e dalle statue del 1500, in un palazzo che Arnolfo di Cambio progettò per l’eternità e non solo per il suo tempo. Ma potrei dire di più: tutta la città di Firenze è una sorta di inno all’eternità dell’arte. A quell’arte che non è semplicemente contemplativa, ma è prima di tutto un’arte utile, capace di creare mondi culturali e luoghi emblematici destinati alla formazione spirituale e materiale delle generazioni venture.
Leon Battista Alberti nel XV secolo, quando doveva spiegare cos’era per lui Firenze diceva una cosa molto semplice: “una casa grande, funzionale e bella, casa costruita nei secoli, con l’apporto di tutte le generazioni”.
Con l’apporto di tutte le generazioni. È importante sottolinearlo. Perché una città, e voi lo sapete meglio di tutti, non vive mai soltanto nel presente, ma anche nel passato e nel futuro. E ogni generazione sente su di sé la responsabilità di prendersi cura della propria città, come fosse la sua casa. Usare, migliorare e ritrasmettere la dimora comune, ecco le regole del vivere civile e tutto ciò lo si può fare in un modo solo: lavorando, sempre e soltanto, per la pace e mai per la guerra. Può sembrare ovvio, ma purtroppo non è così.
Quante delle nostre città, delle nostre opere d’arte, delle nostre biblioteche, dei nostri ponti sono rimasti feriti, distrutti o sono andati perduti a causa della guerra? Forse troppi.
La guerra è la catastrofe naturale inventata dall’uomo, è stato detto. Niente di più vero: come la natura deturpò Firenze nel 1966, così la guerra lo aveva fatto nel 1944. I nazisti distrussero alcuni meravigliosi ponti, trafugarono opere d’arte, bruciarono palazzi, ben consapevoli che l’arte fosse il bersaglio privilegiato per chi vuole seminare terrore nel nemico. E se oggi possiamo ancora ammirare il Ponte Vecchio lo dobbiamo a un illuminato console tedesco (Gerhard Wolf ) che amava l’arte più del suo Furher. Ponte Vecchio come il ponte della città di Mostar, in Bosnia-Erzegovina, distrutto nel 1993: ponte che è tornato recentemente a tener vivo il collegamento tra le due parti della città.
Oggi, nulla è cambiato: il terrorismo che ci pone davanti a una nuova guerra, ha colpito al cuore il patrimonio culturale, come a Palmira in Siria, al Museo del Bardo a Tunisi, perché si colpisce la cultura? Perché i beni culturali delle nostre città sono simboli e chi li colpisce punta a spaventare l’opinione pubblica e distruggere l’identità culturale dei popoli. La cultura però è l’arma più potente che abbiamo contro la guerra. E le città non possono che essere costruttrici di pace, perché devono essere prima di tutto luoghi di incontro e non di scontro. Lo scopo di questo convegno è anche quello di condividere, come sindaci, una iniziativa forte e corale, per proteggere i nostri patrimoni culturali, affermando la cultura come strumento di pace, rivolgendoci in primo luogo alle organizzazioni internazionali che sono anche qui rappresentate come l’Organizzazione delle Nazioni Unite e l’Unesco, e rivolgendoci altresì ai governi degli Stati. Credo quanto mai utile che ciascuno di noi possa avanzare qui proposte per azioni concrete per la tutela e il supporto al patrimonio culturale mondiale materiale e immateriale e che le nostre città si rendano protagoniste, a partire dalle esperienze già maturate anche in momenti tragici, conflitti, guerre, di progetti mirati a sollecitare le società globali verso temi che solo in apparenza sembrano astratti o lontani dai nostri cittadini. Penso alle reti di protezione dei patrimoni culturali in pericolo, alle politiche di conservazione e protezione dei beni materiale, quali la cultura viva dei popoli, le minoranze linguistiche, etniche e religiose che convivono nelle nostre città, ai progetti di recupero e restauro del patrimonio culturale colpito dalle guerre; penso al rafforzamento delle relazioni interculturali, alla cooperazione e agli scambi di esperienze tra le nostre città, aumentando la solidarietà tra i cittadini dei nostri popoli aventi differenti culture e lingue e uguali diritti di libertà, giustizia e pace. Penso alle nuove frontiere della resilienza delle città di fronte a eventi umani e naturali che minacciano sempre più spesso i beni e il patrimonio dell’umanità. E non ultimo: penso all’educazione, ai progetti di educazione rivolti alle generazioni presenti e future per una maggiore conoscenza e accoglienza della diversità, per la crescita dell’uomo e della donna e il mantenimento della pace tra i popoli.
Ho parlato delle donne, e sottolineiamo con grande piacere che tante donne partecipano oggi come testimoni, come politici, come intellettuali, premi Nobel, a questi giorni di lavoro. L’educazione a tutti i livelli è infatti la chiave del progresso che le nostre città hanno in comune: “Non esiste una città di successo che non abbia un capitale umano”, ha scritto l’economista Edward Glaeser nel suo best-seller ‘Il trionfo della città’, citando esempi di città in tutto il mondo tra cui negli Stati Uniti Boston e Minneapolis.
Cari colleghi, spesso mi capita di passeggiare per le stanze di un palazzo bellissimo: è qui vicino, si chiama Palazzo Medici Riccardi, ed è un po’ il palazzo gemello di questo palazzo che ci ospita. Lo fece costruire Cosimo il Vecchio dei Medici dall’architetto Michelozzo e tra i capolavori al suo interno ce n’è uno che voglio ricordare in particolare: è la cappella dei Magi di Benozzo Gozzoli. Un ciclo di affreschi straordinario ispirato anche da un evento che ha segnato la storia di questa città: il Concilio del 1439 in cui la Chiesa d’Occidente con sede a Roma e quella d’Oriente con sede a Costantinopoli, provarono, dialogando, a cercare un’unità che forse avrebbe reso il mondo un posto migliore. Ci riuscirono solo in parte, ma il loro nobile tentativo è passato alla storia.
Giunsero a Firenze Papa Eugenio IV, l’imperatore di Costantinopoli Giovanni Paleologo e poi cardinali, patriarchi, arcivescovi, teologi, artisti, pensatori, politici delle Chiesa di Occidente e delle Chiese di Oriente. Firenze conserva ancora memorie e documenti di altissimo valore storico e artistico di quell’incontro all’interno della Biblioteca Laurenziana. Ma non sono rimasti soltanto atti o dipinti: il mondo della cultura dell’epoca ne fu profondamente influenzato anche nel vivere comune. Fu un evento straordinario e non è un caso che molti storici individuino in quel Concilio un momento fondamentale della storia moderna, un momento che dette un forte impulso alla cosiddetta “rinascita della civiltà”, l’uscita definitiva dal buio del Medioevo e l’ingresso in una nuova epoca.
Non credo che vi stupiate se in qualche modo voglio legare ‘idealmente’ quell’evento con il nostro di oggi. Non sono il primo e spero nemmeno l’ultimo a pensare la città di Firenze come luogo ideale per la mediazione, la ricerca dell’armonia, l’incontro tra i popoli e le culture lontani. Già lo fece un mio illustre predecessore, Giorgio La Pira, di cui proprio oggi si celebra l’anniversario della morte, che 60 anni fa organizzò proprio qui, nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, un grande convegno, che in pieno clima di Guerra fredda, voleva far dialogare le grandi città d’Oriente e d’Occidente, del Sud e del Nord, molte delle quali tornano ad essere presenti qui con i suoi sindaci e rappresentanti. Il tema di allora era urgente quanto oggi: la pace. All’epoca era la bomba atomica che spaventava, oggi sono l’estremismo religioso, le crisi economiche, le derive xenofobe, il terrorismo.
Il sindaco Giorgio La Pira credeva fortemente nel valore del dialogo tra popoli diversi e religioni lontane per raggiungere la pace e nell’importanza che le città possono avere nel favorire questo lungo e difficile percorso. Sosteneva ad esempio che Fez, in Marocco, che è qui presente, e Firenze fossero due facce della stessa medaglia, così diverse eppure così simili: anima e memoria del mondo musulmano la prima e del mondo cristiano la seconda.
A tal proposito lasciatemi raccontare un aneddoto a suo tempo narrato dal politico italiano Giulio Andreotti: il re Hassan II del Marocco, che durante il suo regno incontrò più volte La Pira, avendo saputo del procedimento di beatificazione del sindaco di Firenze avviato dal Vaticano dopo la sua morte, chiese ad Andreotti: “Senta io sono Musulmano, ma, secondo lei, posso testimoniare a favore del procedimento di beatificazione di La Pira?”.
Ricercare l’uguaglianza nella diversità, questo significa dialogare e La Pira, di tale ricerca, ne era un instancabile promotore.
Tra i molti insegnamenti che ci ha lasciato ce n’è uno che vorrei fosse condiviso da tutti noi: ovvero credere fermamente che una città, non sia solo un luogo dove abitare, ma un microcosmo umano concreto e perfetto, dove coltivare il valore del dialogo, conditio sine quanon per immaginare ponti simbolici che leghino i vari popoli, ponti che permettano alle generazioni future non di riparare danni o raccogliere macerie, ma di progettare e costruire città del futuro che abbiano salde radici nel passato. I regni passano, le città restano, amava dire il sindaco La Pira.
Il sindaco in effetti ricordava quanto le città fossero le vere depositarie del passato e futuro. Guardate queste due mappe che noi abbiamo voluto esporre per la prima volta in occasione di questa assemblea: sono due opere dell’artista italiano Alighiero Boetti, ricamate su cotone dalle donne afghane negli anni Ottanta e Novanta ed esposte qui nel Salone. Ci accorgiamo che esse riproducono il passaggio epocale della trasformazione dei confini sovietici con la perestrojka, quando dalle ceneri dell’Unione Sovietica sorse la Russia nell’agosto del 1991. Queste mappe oggi ci appaiono così diverse e lontane, perché i confini degli Stati sono cambiati. Il messaggio dell’artista Boetti riprende il pensiero di La Pira: i confini degli Stati cambiano, ma le città restano. Ricordiamocelo: le città custodiscono il passato e costruiscono il futuro per le generazioni a venire, non è compito di noi sindaci curarci della ragione di Stato, ma preoccuparci delle ragioni dei nostri cittadini.
Cari sindaci e delegati delle città di tutto il mondo, gentili ospiti, premi Nobel per la pace e la cultura, rappresentanti delle organizzazioni internazionali, artisti e intellettuali, il mio augurio è che, per i giorni che trascorrete qui, mentre passeggerete per le vie di Firenze, possiate percepire ogni palazzo, ogni meravigliosa opera dell’ingegno umano, non solo come l’espressione di una storia, che pure è intensa e preziosa, ma come antiche e solide fondamenta di un edificio del futuro. Il mio augurio voglio sia rivolto in particolare, consentitemelo, alla nostra ospite Sua Altezza Reale Haya Bint Al Hussein, ringraziandola per il gesto di vicinanza che mostra con la sua presenza. Un ringraziamento all’assessore Nicoletta Mantovani Pavarotti che ha curato tutto il lavoro di invito, e preparazione di questo convegno.
Il mio augurio infine a tutti voi per questi giorni di lavoro che ci attendono. È quello che ciascuno di noi nelle proprie città possa costruire un futuro aperto, solidale, un futuro dove tutto il mondo sia consapevole che, come disse il politico socialista Filippo Turati alla vigilia della prima guerra mondiale parafrasando un antico proverbio romano: “Si vis pacem non para bellum, si vis pacem para pacem” (“Se vuoi la pace non preparare la guerra. Se vuoi la pace, prepara la pace”).
E noi vogliamo dare il nostro contributo a prepararla qui, oggi, tutti insieme. Grazie e buon lavoro.