61° della Liberazione di Firenze, il sindaco Domenici ai giovani: "Prendere esempio dai valori della Resistenza nella ricerca di mete e obiettivi"
"Attingere dal passato la forza e l'energia necessaria per guardare con speranza al futuro". E' il messaggio lanciato dal sindaco di Firenze Leonardo Domenici durante il suo intervento nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio per le celebrazioni del 61° anniversario della Liberazione di Firenze, avvenuta l'11 agosto 1944. Riferendosi a quegli ideali di pace e democrazia che hanno accompagnato la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale il sindaco invita i giovani a "prendere esempio da questi valori per individuare le mete e i traguardi da raggiungere oggi.""Ci sono due riflessioni importanti da fare in questo particolare momento storico ha sottolineato il sindaco Domenici . In primo luogo dobbiamo tener conto del drammatico e tragico fenomeno del terrorismo e domandarci come fare a difenderci da questa piaga. Credo che l'unica strada perseguibile è convincersi del fatto che il terrorismo non ha mai vinto e che abbiamo bisogno di puntare e lavorare sul dialogo, il confronto e sul primato della politica"."Con la Liberazione ha detto ancora il primo cittadino gli italiani hanno scoperto la politica democratica come strumento per far avanzare i propri ideali e le proprie convinzioni. Non so se sia possibile farlo oggi. Proviamoci, costruiamo insieme le basi democratiche su cui favorire la partecipazione della gente e limitare il potere dei pochi"."La seconda cosa su cui vorrei riflettere ha aggiunto ancora il sindaco è il momento di difficoltà in cui oggi viviamo. Anche dopo il secondo conflitto mondiale l'Italia attraversava una forte crisi: economica, sociale, culturale, ma la speranza nel futuro ha aiutato la gente a superarla. Ecco cosa ci serve oggi: occorre reagire, trasmettere alle nuove generazioni la speranza e la prospettiva di un futuro diverso"."L'importanza della memoria ha concluso il sindaco Domenici è quindi il filo conduttore di queste celebrazioni per il sessantesimo anniversario della Liberazione iniziate il 25 aprile con una bella manifestazione qui in Palazzo Vecchio, proseguite con l'apposizione della targa in ricordo di Paolo Barile alla Fortezza da Basso, con lo spettacolo sull'arengario di Palazzo Vecchio contro gli autoritarismi e le dittature, il concerto e le testimonianze in piazza S. Spirito in occasione del sessantunesimo anniversario della morte del comandante Potente, cui l'Amministrazione comunale intende dedicare una statua che sarà collocata in Oltrarno. Credo anche sia importante ricordare i civili morti in guerra che troppo spesso vengono dimenticati e che negli ultimi anni sono drammaticamente sempre più coinvolti nei conflitti".Dopo il saluto del sindaco ha preso la parola Mila Pieralli a nome delle associazioni antifasciste e della Resistenza e il professor Tommaso Detti dell'Università di Siena che ha tenuto l'orazione ufficiale (in allegato).Le celebrazioni per l'11 agosto sono iniziate in piazza dell'Unità d'Italia dove il sindaco Domenici, i rappresentanti delle organizzazioni partigiane e autorità civili e militari hanno deposto corone di alloro al monumento ai caduti. Gianna Sciclone per la comunità Evangelica, il vice rabbino Umberto Forti per la comunità ebraica e monsignor Alberto Alberti per la chiesa cattolica hanno letto alcune preghiere. Poi la banda della Filarmonica Rossini ha preceduto il corteo (fino a Palazzo Vecchio) aperto dal tricolore, dalla bandiera del Comitato toscano di Liberazione nazionale e da quella del Corpo volontari della Libertà. Dietro al Gonfalone di Firenze il sindaco Domenici, il vicesindaco Giuseppe Matulli, gli assessori Tea Albini, Daniela Lastri, Gianni Biagi, Paolo Coggiola, Lucia De Siervo, Riccardo Nencini, Eugenio Giani, il presidente del consiglio comunale Eros Cruccolini e la vicepresidente Bianca Maria Giocoli, con i consiglieri comunali Agostini, Barbaro, Imperlati, Soldani, Auzzi, Fusi, Morrocchi, Matteuzzi, Meucci. Poi il gonfalone della Regione Toscana col presidente del consiglio regionale Riccardo Nencini e il consigliere Paolo Cocchi, quello della Provincia di Firenze col presidente Matteo Renzi e quelli dei Comuni di Empoli, Scandicci, Reggello, Lastra a Signa, Sesto Fiorentino, Rufina, Pontassieve, Greve in Chianti, Rignano, Calenzano, San Casciano, Firenzuola, Vaglia e i labari delle associazioni partigiane. Erano presenti anche il viceprefetto vicario Ennio Sodano e il questore Vincenzo Indolfi.Le celebrazioni per il 61° anniversario della Liberazione di Firenze si concluderanno stasera (ore 21) col concerto della Filarmonica Rossini sull'arengario di Palazzo Vecchio.(fd)IN ALLEGATO IL TESTO DELL'INTERVENTO DEL PROFESSOR TOMMASO DETTISignor Sindaco, Autorità, Cittadine e Cittadini,parlare in questa sala in occasione dell'anniversario della Liberazione di Firenze non è per me soltanto un privilegio, del quale vi sono grato, ma è motivo di profonda emozione. Non solo perché alcuni dei suoi protagonisti da Enzo Enriques Agnoletti, a Tristano Codignola, a Carlo Ludovico Ragghianti sono stati figure care della mia giovinezza, ma anche e soprattutto perché in quei giorni del 1944 la mia futura madre era una staffetta del Comitato toscano di liberazione nazionale e il mio futuro padre era al comando di una squadra di partigiani operante in Oltrarno.Per quanto mi è possibile cercherò tuttavia di prescindere dai ricordi personali. Altro sono infatti le memorie individuali, altro è una memoria collettiva e di grande rilievo come quella che oggi rinnoviamo, ricordando assieme l'11 agosto del 1944 e riaffermandone quei significati, che il trascorrere del tempo non ha eroso, né a mio parere può fare impallidire.Non vi proporrò peraltro un riepilogo degli avvenimenti dei quali Firenze fu teatro sessantun anni fa. A partire da Ponti sull'Arno, il libro di Orazio Barbieri pubblicato nel 1958, e dalla ricerca di Carlo Francovich su La Resistenza a Firenze, apparsa del 1961, essi sono infatti oggetto di una ricca produzione memorialistica e storiografica, che non avrebbe molto senso riassumere.Della Liberazione di Firenze vorrei piuttosto sottolineare quelli che a me sembrano alcuni suoi significativi tratti specifici. In parte essi derivano dalla storia della città: se durante il ventennio Firenze era stata sede di un vivace antifascismo di matrice tanto intellettuale, quanto popolare, già prima della marcia su Roma essa era capitale di una regione della quale le robuste tradizioni associative delle sue città e la grande ondata di lotte mezzadrili del 1919-20 avevano fatto una «regione rossa». Al tempo stesso e non a caso Firenze e la Toscana erano state d'altronde un importante epicentro dello squadrismo urbano ed agrario, la culla di un fascismo particolarmente forte ed aggressivo.In una regione caratterizzata da una inusuale acutezza delle polarizzazioni politiche, credo che questi precedenti conferiscano alla Liberazione di Firenze un particolare significato. Se poniamo mente alle tesi autorevolmente sostenute da uno storico come Claudio Pavone, secondo il quale nell'Italia del 1943-45 si combatterono insieme tre guerre una di liberazione nazionale, una civile e una sociale in effetti il caso fiorentino appare ad un tempo peculiare e paradigmatico. Oltre che evento inaugurale, insomma, la Liberazione di Firenze fu un momento cruciale di svolta, nel quale tornarono a intrecciarsi i molti fili di una storia di più lungo periodo.Su questo sfondo, a sottolineare ulteriormente queste caratteristiche furono le lungimiranti scelte programmatiche compiute dal Comitato toscano di liberazione nazionale, che prima ancora della battaglia di Firenze compì un atto di grande rilievo attribuendo gli incarichi politici e amministrativi necessari all'autogoverno della città e designando alla carica di sindaco una figura di grande prestigio del socialismo prefascista, come Gaetano Pieraccini. Così, quando gli Alleati attraversarono l'Arno, trovarono ad accoglierli una città che si era liberata da sola, e da sola si amministrava grazie all'opera di autorità antifasciste sorrette da larghi consensi nella cittadinanza.Al di là di questi aspetti e dei molti altri che pure potrebbero essere ricordati, la Liberazione di Firenze non è comunque che un capitolo di una storia più generale quella della Resistenza , per valutare la quale è oggi necessario prendere in considerazione alcuni aspetti del discorso pubblico sul fascismo e sull'antifascismo, così come è venuto sviluppandosi da un quindicennio a questa parte.Mi riferisco all'aggressiva polemica volta a screditare la tradizione antifascista del nostro paese, che è cresciuta sui mass media in concomitanza con la crisi della cosiddetta prima repubblica ed è tuttora in corso. I termini essenziali di tale polemica sono noti: fascismo e antifascismo dovrebbero essere consegnati al passato affinché le memorie divise che ne sono state l'eredità possano essere sostituite da una memoria condivisa, capace di riconciliare gli italiani tra loro e con la loro storia, fondando così una identità nazionale unitaria.Considero queste opinioni profondamente errate. Un rinnovato senso di identità nazionale e appartenenza democratica non può basarsi né sulla riconciliazione di memorie che conciliabili non sono, né su una irenica «conciliazione» degli italiani con il loro passato. Ritengo invece che tale identità non possa non fondarsi (per riprendere un'espressione di Jürgen Habermas a proposito del passato nazista della Germania) su una «appropriazione critica» dei più diversi aspetti della nostra storia, con le sue luci e le sue ombre, che consenta a questo paese e ai suoi cittadini di assumerne per intero e condividerne la responsabilità.A tale scopo è in primo luogo necessario che si facciano seriamente i conti con il passato fascista dell'Italia e con i suoi lasciti, ciò che a differenza di quanto è accaduto in altri paesi, come appunto la Germania, ma anche la Francia riguardo all'esperienza di Vichy a distanza di oltre sessant'anni non è stato ancora fatto. Basterebbe a provarlo la tenace sopravvivenza di uno stereotipo rassicurante e consolatorio, come quello degli «italiani brava gente».In secondo luogo, tuttavia, occorre sottoporre a un aggiornato vaglio critico la stessa tradizione antifascista, così come fu costruita all'indomani della Liberazione, sfrondandola da alcuni miti che nell'immediato dopoguerra assolsero al ruolo di consolidare le fragili basi della democrazia repubblicana nata dalla Resistenza, ma da molto tempo non hanno più ragion d'essere.Contrariamente a quanto alcuni pensano, ciò non implica alcun pareggiamento di responsabilità, alcuna sottovalutazione del ruolo e del significato dell'antifascismo e della Resistenza nella storia d'Italia; è vero invece esattamente il contrario.L'immagine oleografica di un intero popolo unito nella lotta contro il nazifascismo, ad esempio, ha contribuito ad occultare l'ampiezza dei consensi raccolti dal regime nella società italiana ed ha favorito meccanismi autoassolutori che ne hanno reso più difficili il distacco e il superamento. Riconoscere che la Resistenza fu un fenomeno minoritario non sminuisce, ma accresce il significato delle scelte di coloro che misero a repentaglio la propria vita per combattere il fascismo ed il nazismo.Alla Resistenza, del resto, non dettero corpo esclusivamente le formazioni partigiane guidate dal Comitato di liberazione nazionale. Se come è giusto, oltre al loro fondamentale apporto, consideriamo anche quello delle tante donne e dei tanti uomini che ad esse offrirono sostegno, quello dei reparti dell'esercito italiano che combatterono a fianco degli Alleati, quello dei prigionieri di guerra che rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale e così via, si vedrà che quella minoranza era tutt'altro che sparuta.Allo stesso modo hanno indubbiamente ragione coloro i quali hanno ricordato che la guerra non fu vinta dalle forze della Resistenza, ma dagli eserciti alleati. Vero è che tale osservazione, in sé lapalissiana, mirava ad operare una sorta di delegittimazione postuma dei partiti antifascisti che assunsero il governo dell'Italia all'indomani della Liberazione, ma anche in questo caso riconoscere una evidente verità storica non consente affatto di accreditate tesi del genere.Non solo perché il contributo della Resistenza alla liberazione del nostro paese fu tutt'altro che irrilevante sullo stesso piano militare, ma anche e soprattutto per il suo significato politico e morale. È quasi banale osservare che una libertà portata dall'esterno ha tutt'altro valore, forza e capacità di consolidarsi di una libertà per la quale si è combattuto.Neppure credo che possano destare scandalo affermazioni come quelle di chi, a proposito dell'8 settembre 1943, ha parlato di «morte della patria». Trovo anzi appropriata quell'espressione, salvo precisare che a morire in quel settembre di sessantadue anni fa fu un'idea di patria nazionalista e fascista, travolta dal crollo di un regime totalitario che aveva portato l'Italia alla catastrofe. E che fu proprio nel corso della lotta di Liberazione contro il fascismo e il nazismo che prese faticosamente corpo una nuova idea di patria.Alla sua costruzione la maggioranza degli italiani non partecipò e una parte della popolazione manifestò ostilità e diffidenza nei confronti della lotta partigiana. Nozioni come quelle di «attendismo» e di «zona grigia», usate per designare coloro che non presero parte né per la Resistenza né per la Repubblica sociale italiana, caricate a lungo di un indifferenziato giudizio di valore negativo dalla tradizione antifascista, sono state tuttavia giustamente sottoposte a revisione critica dagli storici.Distinguere i casi di opportunismo e di compromissione dalle naturali strategie di sopravvivenza di gran parte della popolazione civile nel contesto di una guerra devastante è in effetti tanto doveroso, quanto sarebbe improprio rivalutare in blocco la cosiddetta zona grigia rispetto alle scelte di chi si oppose attivamente al fascismo e all'occupazione tedesca.Il carattere ufficiale di questa celebrazione, infine, non deve a mio avviso impedirci di riconoscere che la Resistenza, come tutte le guerre e particolarmente quelle che si configurano in tutto o in parte come guerre civili, fu anche teatro di episodi esecrabili, giustizie sommarie e regolamenti di conti. Far luce su tali episodi, come hanno fatto da tempo molti studiosi per lo più legati agli Istituti storici della Resistenza, è cosa ben diversa da prenderli a pretesto per campagne mediatiche volte a screditare oggi i propri avversari politici. È invece un passaggio irrinunciabile e qualificante di quella appropriazione critica del passato, che ho ricordato citando le parole di Habermas.Mi domando, del resto, se l'interrogativo storico più rilevante sollevato da quegli episodi non risieda nella loro consistenza, che mi sembra significativamente contenuta rispetto ad altri casi comparabili.Indipendentemente da ciò, che questo lavoro di scavo non possa inficiare il valore della lotta di Liberazione mi sembra confermato, tra l'altro, dall'esempio che in anni non lontani ci è stato offerto dal Sudafrica, dove Nelson Mandela spese coraggiosamente la propria autorità affinché alla Commissione per la verità e la riconciliazione, istituita per giudicare i crimini dell'apartheid, venisse sottoposto anche l'operato del suo partito, l'African national congress, che pure per decenni aveva combattuto il regime segregazionista.Non si è trattato in quel caso di una disputa tra memorie contrapposte o fra le ragioni della memoria e dell'oblio, differita per giunta di molti decenni, ma dell'originalissimo esperimento di un tribunale il cui giudizio non si è concluso con sentenze di condanna, bensì con una pubblica ammissione della verità, resa dei responsabili al cospetto delle vittime e dei loro familiari.Ciò nonostante non considero improprio questo accostamento e resto convinto che le azioni esecrabili che pure sono state commesse nel corso della lotta contro l'apartheid non consentano di metterne in forse il valore più di quanto mettano in forse il significato della guerra contro il nazismo e il fascismo i bombardamenti a tappeto delle città tedesche da parte degli Alleati, che pure mieterono migliaia e migliaia di vittime civili, o la morte atomica di Hiroshima e Nagasaki, di cui è da poco ricorso il sessantesimo anniversario.Come le memorie collettive sono mutevoli perché vengono rielaborate anno dopo anno in funzione dei «quadri sociali» del presente, così la ricerca storica torna incessantemente a interrogare il passato, anch'essa alla luce dei problemi del presente. Le memorie e le storie della Resistenza non fanno eccezione, cosicché è del tutto naturale pensare che la nostra immagine di questo o quell'aspetto delle vicende che oggi celebriamo sia destinata a cambiare.C'è però un dato di fondo che a me sembra difficilmente suscettibile di revisione e che quindi ritengo di poter considerare acquisito una volta per tutte: l'antifascismo e la Resistenza sono stati storicamente i protagonisti dell'introduzione della democrazia nel nostro paese. Dico della introduzione della democrazia, si badi, non del suo ritorno, come pure a volte capita di leggere. E ciò non solo perché fino al 1946 le donne non avevano mai avuto accesso al voto (anche altrove i loro diritti hanno avuto riconoscimenti tardivi), ma fondamentalmente perché l'inclusione delle grandi masse popolari nello Stato unitario costituitosi nel 1861 era rimasta largamente incompiuta e fino alla sua crisi, conclusasi con l'avvento del fascismo, quello Stato, benché liberale e moderno, era sempre rimasto in larga misura oligarchico e non democratico.Se tale, in estrema sintesi, è il significato della Resistenza nella storia del nostro paese e si tratta a mio avviso di un fatto inconfutabile esso non è davvero cosa da poco. Né a sminuirla possono valere le argomentazioni secondo le quali l'equazione antifascismo-democrazia non è reversibile. Se negli anni Quaranta del Novecento la democrazia era necessariamente antifascista, è stato osservato, non per questo tutte le forze antifasciste erano democratiche.Riconoscere che l'ideologia del Partito comunista non era democratica, tuttavia, non può far disconoscere né il valore della Resistenza al fascismo, né l'apporto di quel partito non soltanto alla Liberazione, ma anche alla costruzione della legalità repubblicana e al suo consolidamento.Democristiani e comunisti, socialisti, azionisti e liberali non si limitarono del resto a portare un contributo essenziale alla conquista della libertà, ma elaborando assieme la Carta costituzionale dettero un fondamento solido e avanzato alla nuova democrazia repubblicana, consegnando al nostro paese una tavola di valori capace di garantire l'unità della comunità nazionale.«Non abbiamo il gusto dei rituali commemorativi scrisse Ferruccio Parri nella sua prefazione al libro di Barbieri che ho citato all'inizio , non ci erigiamo a custodi di venerande memorie». Al tempo stesso, però, insisteva sulla necessità di non dimenticare.Per quanto mi riguarda, posso soltanto augurarmi di essere riuscito ad attenermi almeno in parte al senso più profondo delle sue parole. Ricordando la Liberazione di Firenze a sessantun anni di distanza, tuttavia, occorre essere consapevoli che il rischio di ergersi a custodi di venerande memorie è sempre più insidioso.Per questo non credo di fare torto ad alcuno se dico che in questi inizi del XXI secolo ricordare il passato non è più sufficiente. E poiché commemorare eventi lontani come quelli sui quali vi ho intrattenuto significa tenere unito il passato al presente, gettare un ponte fra l'uno e l'altro, penso che il miglior modo di coltivarne la memoria sia quello di sviluppare una riflessione capace, se così posso esprimermi, di coniugarne al presente il senso e gli insegnamenti.Se infatti, anche grazie alla Resistenza, l'esperienza storica del fascismo si è conclusa da sessant'anni, la libertà, la democrazia, la tolleranza, la giustizia, l'uguaglianza, i diritti umani e di cittadinanza non cessano di dover essere difesi e sviluppati.