Unity in Diversity, II sessione della seconda giornata dedicata al ruolo dei media e dei social nel dialogo tra culture

L'intervento della Premio Nobel Tawakkol Karman

Come il giornalismo, la televisione, la fotografia possono giocare un ruolo fondamentale nella rappresentazione delle questioni mondiali. Etica e responsabilità nella scomposizione degli stereotipi e delle false rappresentazioni, per favorire il dialogo fra le culture, gruppi sociali e minoranze. Il ruolo del digitale e dei social media nella costruzione di una cultura di pace. Questi i temi della seconda sessione di questa seconda giornata di Unity in Diversity.

 

A prendere per prima la parola è stata il Premio Nobel per la Pace Tawakkol Karman, attivista yemenita, membro del partito Al-Islah (Congregazione Yemenita per la Riforma), e leader dal 2005 del movimento Ṣaḥafiyyāt bilā quyūd (in arabo: صحفيات بلا قيود‎, Giornaliste senza catene), gruppo umanitario da lei creato.
“La libertà di espressione è la cosa più importante – ha detto la Karman –. Non ci può essere democrazia senza conoscenza, e non può esserci conoscenza senza libertà di espressione. Per questo in Yemen la gente lotta, attraverso tutte le forme di espressione: il canto, la pittura, la scrittura, rischiando la vita per affermare la propria libertà.
Il regime non permette ai media di parlare perché ha paura dell’opinione della gente. Oggi, nel 2015, media significa anche internet e i social media, mezzi che danno libero accesso a informazioni e ad opinioni, e anche grazie a questi mezzi noi possiamo portare avanti la nostra lotta”.
La Karman ha poi chiuso il suo intervento lanciando un forte appello. “La cittadinanza è il diritto di ogni persona, la voce di chi non ha voce deve essere ascoltata in tutto il mondo. Il resto del mondo non può continuare ad osservare in silenzio. Questo deve essere il secolo della Pace, dei diritti delle persone, della cittadinanza globale. Questo è il mondo delle persone, e le persone hanno bisogno di conoscenza. Senza conoscenza si perde la dignità delle persone. Tutti i piccoli villaggi del mondo devono diventare un’unica grande famiglia”.

 

A seguire ha preso la parola Gabriele Micalizzi, rappresentante del Collettivo Cesura (Mostra collettiva di fotografia).
“Sono un fotogiornalista e rappresento il Collettivo Cesura, gruppo di persone che utilizza il linguaggio della fotografia nato nel 2008. La nostra spina dorsale, come formazione, è il fotogiornalismo. Il nostro mentore, Alex Maioli della prestigiosa agenzia Magnum, ci ha insegnato i valori e l’etica che stanno dietro questa professione. Principalmente ci occupiamo di conflitti coprendo appunto la news internazionali, e riprendiamo storie legate al sociale. Nel 2014 abbiamo perso uno dei nostri in Ucraina mentre stava seguendo il conflitto tra i ribelli e l’esercito ucraino a Sloviansk. Da qual giorno è diventata per tutti noi una missione portare avanti la professione del fotogiornalista e l’etica che vi sta dietro. Guardavo questa sala, guardavo quello che è affrescato su queste pareti e sono immagini di guerra. Perché è importante ricordare la guerra? Perché se non si ricorda il passato, chi siamo stati, cosa è successo, le motivazioni che hanno spinto ad arrivare al conflitto, non si può creare un futuro migliore. Ed è da qui che vorrei partire per riflettere sulla nostra condizione di esseri umani e di cittadini. Sono qui perché ho lavorato nel Kurdistan siriano e ho avuto un’esperienza molto da vicino con il sindaco di Kobane. Sono riuscito ad entrare, illegalmente perché è l’unico modo per entrare in Siria, passando dalla Turchia. C’è stato un supporto incredibile da parte del sindaco perché ha capito qual era la situazione e ha capito cosa poteva fare per i media in quel momento. Quando mi trovavo lì c’era la grossa battaglia di Talabiad, che ha aperto un corridoio tra un cantone e l’altro (il Kurdistan è diviso in cantoni). Io volevo andare verso il Corridoio tra un cantone e l’altro, verso Qamishlo, ed il sindaco di Kobane, referente dell’area, ha capito la necessità di avere delle prove di questo conflitto e di portare fuori queste immagini e documentazioni importantissime. Mi ha aiutato a passare il corridoio, nonostante sia un rischio anche per loro perché sono responsabili della nostra incolumità. Ha ascoltato: è un sindaco che sta sempre in mezzo alle persone e capisce la necessità di affrontare i problemi. Grazie a lui sono riuscito a fotografare i prigionieri dell’ISIS. Questa esperienza mi ha permesso di riflettere sul fatto che in una zona di conflitto le Istituzioni devono essere molto flessibili e cambiare in continuazione ed adeguarsi alla situazione perché tutto cambia ogni 5/10 minuti, non c’è stabilità, anche per le Istituzioni stesse. Flessibilità e comunicazione sono quindi temi di cui parlare, perché in una zona di conflitto è importante che ci sia una non propaganda, qualcuno che rappresenti l’idea e sia un occhio vigile e rappresenti la stampa internazionale. Ci deve essere sempre un occhio esterno pronto a recepire e a riportare ciò che accade all’esterno di questa situazione che è quasi sempre caotica e difficile da raccontare”.

 

Paolo Woods ha invece parlato a nome di Riverboom, progetto fotografico che coinvolge Italia, Francia e Svizzera.
“Non credo si tratti solo di dare voce a coloro che non sono ascoltati: il nostro lavoro consiste nel concentrarsi su storie cui è difficile accedere, sia che si tratti di una storia di guerra o una storia sui paradisi fiscali. Sono storie diverse, ma si tratta di giornalismo e solo un giornalista può lavorare a lungo termine per fare questo tipo di studio. Nel 2009 sono stato in Iran durante il Movimento Verde ed è stato un momento molto forte; in migliaia di persone si sono riversate per le strade con assembramenti spontanei. Le foto più vere e forti erano quelle che gli iraniani facevano con i loro cellulari e macchine fotografiche e postavano su social media. Io come giornalista dovevo cercare di andare più in profondità e cercare di scrivere una storia su più livelli. Il nostro ruolo perciò come fotografi, come giornalisti, è di cercare quelle storie che non sono sotto l’occhio e non si sospettano nemmeno: storie necessarie, sincere e approfondite. Ci sono due fasi fondamentali da seguire: prima elaborare e far vedere, perché molto spesso siamo troppo chiusi, facciamo le foto per editori e colleghi mentre dobbiamo portarle a tutto il pubblico. L’altra cosa importante è di riportare il lavoro da dove viene: ogni progetto che facciamo, sia che riguardi il colonialismo cinese in Africa, o il lavoro svolto ad Haiti o Iran, cerchiamo sempre di riportarlo ‘a casa sua’. Non potendo divulgare in Iran il libro che conteneva il lavoro svolto lì, lo abbiamo caricato sui social media in PDF: è stato scaricato migliaia di volte dagli iraniani ed è stato uno dei libri più letti. Riportare il lavoro a casa, da dove viene, dove è stato creato: questo deve essere il senso del nostro lavoro”.

 

Presente alla sessione anche un altro progetto fotografico, il“Terra project”
“L’industria dei media oggi ha sviluppato fortissimi interessi politici ed economici. Il nostro sforzo come collettivo di fotografi, è quindi cercare di andare contro il giornalismo di propaganda. È difficile raccontare con obiettività gli eventi storici, perché non si riesce mai a capire dove sta il bene e dove il male. Ma ogni evento storico è costituito da una moltitudine di sfumature e punti di vista. In questo senso, il nostro lavoro si pone l’obbiettivo di dare al lettore tutti gli strumenti utili per potersi orientare nel mare dell’informazione, creandosi una coscienza e un’opinione propria e indipendente”.

 

Chriss Aghana Nwobu, artista nigeriano, ha spostato l’attenzione sulla situazione attuale del suo Paese.
“Nel nord della Nigeria c’è, purtroppo, lo stereotipo secondo cui anche i bambini che vanno a scuola sono dei terroristi. Questa idea è portata avanti dall’opinione pubblica e dai mass media. Io però ho visto con i miei occhi la realtà e posso dirvi che non tutti questi bambini sono coinvolti nei gruppi terroristici di Boko Haram o simili. La maggior parte di loro va a scuola, come tutti i bambini degli altri paesi. E posso dirvi anche che un gran numero di uomini di affari del nostro paese proviene da quelle stesse scuole. Penso quindi che sia molto importante conoscere a fondo le storie che leggiamo o sentiamo alla tv, perché se viene raccontata una realtà diversa, si fa disinformazione e questo non è certo un bene”.

 

Le conclusioni sono state affidate alla Premio Nobel Tawakkol Karman, che ha affermato: “Penso che i mass media debbano essere onesti e parlare di ogni cosa. Mi riferisco, ad esempio, al conflitto che c’è nello Yemen. Non è un conflitto tra sunniti e sciiti, ma tra la dittatura e la libertà, perché in quel paese le persone stanno lottando contro la dittatura”.
(fdr)