Giorno del Ricordo, la prolusione della professoressa Marina Rossi in consiglio comunale
Ieri il consiglio comunale ha commemorato il 'Giorno del Ricordo' con la prolusione della professoressa Marina Rossi. Questo il testo del suo intervento:
«E' un onore per me rappresentare oggi l'Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste di cui faccio parte e presso il quale svolgo le mie ricerche da molti anni, per riflettere insieme a voi sul Giorno del Ricordo a Firenze, città che esprime nella sua storia plurisecolare in termini di eccellenza i valori spirituali più alti di cui può essere capace l'essere umano.
Nel corso del '900 questa città raggiunge livelli di emancipazione politica, sociale e culturale sempre più elevati grazie all'impegno civile espresso dai suoi abitanti.
Firenze è legata a Trieste dal confronto culturale: Scipio Slataper, Giani e Carlo Stuparich, indirettamente Angelo Vivante trovarono proprio a Firenze, nella Scuola Storica di Salvemini: un ambiente aperto ai nuovi orizzonti europei ed alla "cultura militante".
È città accogliente: negli anni della Grande Guerra il capoluogo toscano fu il maggior concentramento di profughi e sfollati del fronte del Friuli. Nel secondo dopoguerra si costituì una comunità di esuli istriani.
Non si possono capire l'affermazione e le vicende della frontiera nell'Italia nord‑orientale se non si conoscono gli elementi della crisi che colpisce questi territori dopo la prima guerra mondiale. Vi si manifestò un ampio processo di manomissione delle strutture di base, sia economiche che sociali, in seguito all'esito del conflitto. Vennero meno attività economiche formatesi in un secolo e più di partecipazione, sia pur non di rado parziale e marginale, al progresso dell'Europa. La dissoluzione dell'Austria‑Ungheria e la crisi della Germania posero fine, per allora, all'afflusso della manodopera friulana negli imperi centrali; l'agricoltura goriziana e istriana perse con l'Austria il mercato privilegiato, dove collocava i suoi pregiati prodotti mediterranei; cadde il sistema protettivo che aveva sostenuto il forte traffico dei porti di Trieste e di Fiume e aveva fatto la fortuna delle due città; Pola perse il ruolo di grande base navale austriaca.
Nel 1919 l'impegno della ripresa gravava quasi tutto sul regno italiano vittorioso. Ma lo stato, e più latamente la società italiana, non erano preparati a questi problemi. Tutta l'Italia nord‑orientale, anche Trieste, erano state viste sino allora col criterio della perifericità, come territori di confine, da curare per la difesa e per l'offesa, più che da organizzare in funzione di una feconda collaborazione internazionale (fenomeno raro nell'Europa delle nazioni); né lo stato italiano era in grado di offrire efficaci strumenti per la continuazione della funzione mediatrice dell'economia giuliana tra Adriatico e Danubio. La drammatica e traumatica esperienza di quattro anni di guerra poneva problemi di ristrutturazione territoriale ed esigenze autonomiste, che però affioravano malamente nel momento in cui la vittoria militare esaltava, in Italia, il ruolo della struttura unitaria dello stato quale strumento di potenza e di iniziativa politica. La struttura di base del regno d'Italia era quella dello stato nazionale centralizzato, ed esso fu limite insuperabile sia per l'esigenza della partecipazione politica, cioè per l'autonomia, che per quella del riconoscimento dei diritti delle cosiddette minoranze etniche.
La situazione dell'Italia nord‑orientale era anche contrassegnata e condizionata dall'intersecarsi, con diverse accentuazioni locali, dei difficili rapporti dello stato italiano con quelli dell'Europa danubiano‑balcanica, sorti dalla dissoluzione dell'Austria.
La crisi scaturente da tutte queste premesse si espresse progressivamente attraverso tensioni sociali e contrapposizioni ideologiche. Nel proletariato urbano l'esperienza della guerra e della rivoluzione bolscevica aveva radicalizzato la sensibilità al marxismo rivoluzionario. Montava, come in tutta Europa, l'antagonismo di classe. Negli sloveni e nei croati che vivevano al di qua delle Alpi sino ai limiti della pianura friulana e, frammisti agli italiani, nella penisola dell'Istria, la svolta che la grande guerra aveva avuto nel 1917, con Wilson e con Lenin, aveva potenziato l'esigenza di libera espressione dei valori nazionali e di indipendenza nazionale, e l'annessione all'Italia fu per loro una dura frustrazione subita nel momento stesso dell'esaltante recupero dell'individualità nazionale; le loro aspirazioni si rivolgevano anche a territori etnicamente non omogenei, talora prevalentemente italiani o altrimenti d'interesse per lo stato italiano.
L'amministrazione locale, spesso inadeguata, acutizzò e non mediò la crisi, e la propaganda nazionalista trovò fertile terreno nella Venezia Giulia, coi suo discorso di rafforzamento dello stato in termini centralistici e corporativi. Il nazionalismo penetrò nei ceti medi inorientati e nei giovani ansiosi, dove duravano esigenza e speranza nell'avvenire economico di Trieste, e si dava credito al senso di potenza che veniva dalla vittoria; offriva un'arma migliore contro il sorgente irredentismo slavo e l'acutizzata lotta di classe, e trovò sostegno in ambienti economici ed anche militari.
Velleità di impero come superamento dei limiti dello stato nazionale. È questa la situazione favorevole all'avvento del fascismo, perché una repressione violenta poteva rinviare la soluzione democratica della questione sociale e di quelle nazionali, mentre esse erano ancora in fase di formazione e di definizione, e la spinta popolare non aveva ancora conseguito piena struttura. Il fascismo diventò protagonista politico a Trieste già nel luglio 1920 e la Venezia Giulia fu, tra le regioni d'Italia, una di quelle in cui venne effettuato il massimo numero di distruzioni e violenze da parte delle squadre in camicia nera. Ne venne un insieme di idee programmatiche che cercavano di riallacciarsi all'irredentismo, all'idea della difesa nazionale, ma soprattutto facevano propri i propositi del nazionalismo imperialista; fu questo il cosiddetto "fascismo di confine". Trieste avrebbe mantenuto il suo ruolo di grande città, e sarebbe diventata conquistatrice del suo retroterra. È su questa piattaforma di linee politiche e di realtà di fatto che poterono svilupparsi tanto l'abdicazione che il consenso delle forze moderate alla nuova destra, che sa ristabilire con la violenza la pace sociale.
Mentre altri stati europei si sono evoluti, in questo secolo, sulla base del principio della partecipazione politica, il fascismo svuotò di rilevanza istituzionale il sistema rappresentativo‑elettivo e le autonomie locali. Il centralismo era in realtà debolezza politica, impossibilità di organizzare positivamente tutte le energie del paese, e il fascismo si dovette occupare soprattutto dell'eliminazione del dissenso. Dopo la crisi economica degli anni '30 sono qui pienamente ribaditi la perifericità, il nazionalismo politico e quello economico e realtà di fatto fu il mantenimento dell'ordine tradizionale in una situazione storica di impoverimento.
Il nazionalismo politico trovò ampio campo di esplicazione nella persecuzione dei gruppi etnici slavi, e questa vicenda costituisce anche un capitolo della storia del regime; la snazionalizzazione fu perseguita mediante un complesso di misure: distruzione della classe dirigente e riduzione numerica delle comunità allogene (si è parlato di 70.000 slavi emigrati); liquidazione delle loro organizzazioni economiche e culturali; soppressione delle scuole slave e della stampa in lingua slava; italianizzazione dei cognomi; reazione violenta ad ogni tentativo di resistenza e di elusione di questi provvedimenti. Se si considera la fondamentale importanza della coscienza nazionale nel mondo contemporaneo, che cioè essa non è un semplice dato culturale e linguistico, ma è irrinunciabile fattore di identità personale, si può ben dire che questa politica fascista fu un tentativo di genocidio culturale.
Si comprende che, nella Venezia Giulia, l'irredentismo sloveno e croato fu la componente maggiore e più consistente dell'antifascismo. Esso effettuò anche azioni dimostrative armate, che provocarono repressioni feroci. In genere, l'antifascismo fu spesso debole, ma sempre diffuso: ebbe varie matrici e portò avanti politiche diverse. Centri attivi di antifascismo esistettero in varie località giuliane e friulane, e pure i circoli di azione cattolica si mantennero vivi e vitali in molte parrocchie. Nelle elezioni politiche plebiscitarie del 1930, la lista fascista ebbe in Friuli oltre 4000 voti contrari, una delle cifre più alte d'Italia. A Trieste, negli stessi anni, troviamo attiva una cellula di "Giustizia e Libertà" e la Venezia Giulia fu anche, in Italia, tra le zone di più costante e meglio organizzato antifascismo comunista. Elemento determinante della vicenda dell'antifascismo giuliano fu il progressivo convergere tra l'opposizione comunista e l'irredentismo sloveno e croato, conforme alla linea politica dei "fronti popolari". Però, strutturalmente, il comunismo italiano della Venezia Giulia appariva il membro più debole di questa intesa.
Infine l'assetto dell'Italia nord‑orientale venne rimesso in discussione dall'imperialismo nazista. Con l'annessione dell'Austria nel 1938 e della Cecoslovacchia nel 1939, l'Europa centro‑orientale entrava a far parte di questo sistema e ciò implicava, a più o meno lunga scadenza, una revisione della posizione internazionale dei territori gravitanti sull'Alto Adriatico.
Il razzismo antisemita alienò molti consensi al regime fascista, specie a Trieste che era sede, sin dai tempi dell'Austria, di una numerosa e influente colonia ebraica, e la maggioranza della popolazione fu contraria all'entrata in guerra dell'Italia. Nel 1941, coll'invasione della Jugoslavia, il programma dell'imperialismo italiano venne messo alla prova dei fatti e l'andamento del conflitto potenziò l'antifascismo e quasi tutta la popolazione dell'Italia nord‑orientale si portò, progressivamente, su posizioni di dissenso. In realtà, coll'invasione della Jugoslavia, il problema della Venezia Giulia diventava uno dei problemi che la nuova guerra doveva risolvere, e l'annessione della Slovenia e di parti della Croazia all'Italia, voluta dal governo fascista, univa automaticamente il destino delle terre slave della Venezia Giulia a quello della Slovenia e della Croazia. Nel moto nazionale popolare jugoslavo di liberazione rivendicazioni nazionali e sociali diventarono un tutto inscindibile.
La situazione dell'Italia nord‑orientale è dunque caratterizzata da un estremo grado di conflittualità. E queste esplodono all'annuncio dell'armistizio italiano, l'8 settembre 1943, anche con gravissimi episodi di furore popolare antitaliano oltre che antifascista, che si sfogò in un alto numero di uccisioni (i fatti delle "foibe"). L'abisso aveva scavato l'abisso (Salvemini), e con abile e pronto inserimento politico e organizzativo in questa vicenda furono i comunisti croati e sloveni ad assumere l'egemonia della lotta per la libertà e per l'unità e l'indipendenza nazionale di queste popolazioni. Questi eccessi, quelli del precedente ventennio, la secolare contrapposizione delle esigenze di italiani e slavi, tutto ciò determinò una profonda spaccatura nelle numerose fila di quanti aspiravano alla libertà, come pure diffuse disorientamento e incertezza, accanto alle grandi certezze.
Così in questa regione, negli anni 1943‑1945, si intrecciano motivi di fondo del secondo conflitto mondiale: la pretesa germanica dei Lebensraum (spazio vitale) e del Nuovo ordine europeo; l'esigenza militare della "fortezza Europa"; gli annosi problemi locali del confine, della depressione e arretratezza economica, della giustizia sociale, della libertà nazionale; il riflusso verso occidente della presenza italiana.
La complessità della situazione fa sì che sia possibile, ai nazisti, individuare spazi di penetrazione e di manovra politica, e anche possibilità di assenso e di collaborazione. In questo quadro la "Risiera" appare solo come uno dei capisaldi del loro sistema di dominio, che si articola non soltanto sulla repressione e il terrore, non soltanto sullo sfruttamento economico e sulla utilizzazione delle contrapposizioni nazionali e sociali, ma anche su promesse di pacificazione e di ripristino dei perduti livelli di produttività economica e di autonomia culturale. Una certa iniziativa politica è consentita agli occupatori, perché nell'ambiente convivono più logiche: quella della ribellione contro padroni antichi e nuovi; quella della vendetta e della difesa da essa; quella del profitto; quella, infine, della sopravvivenza, della paura, della ricerca del compromesso.
In misura non trascurabile la Resistenza, carica di pesi antichi e non sopportabili, era lotta per il potere, oltre che per la libertà, e ciò la portò anche sul piano tragico, dove bene e male spesso sono inestricabilmente congiunti. La lotta per il potere ha prodotto in queste terre ferite terribili, cui è forse impossibile dare conforto; altri luoghi di morte ci sono stati, oltre a questa "Risiera". Ma l'andamento della guerra e la progressiva affermazione del movimento di Resistenza nel suo complesso (nonostante le profonde dissociazioni nazionali e ideologiche che lo percorrono al suo interno), progressivamente ridussero e infine distrussero il sistema nazista di dominio ed i consensi ad esso. Nel movimento sono presenti le forze migliori della società giuliana ed anche, simboli significativi, un'unità della Resistenza tedesca che operò nella Carnia settentrionale (il battaglione Freiheit inquadrato nella Divisione Osoppo‑Friuli) ed un'unità della Resistenza ebraica, che si costituì nell'isola di Arbe.
L'affermazione della Resistenza, pur ponendo nuovi problemi, ha anche posto le premesse per lo scioglimento di antichi e sanguinanti nodi della storia di questi luoghi.
Nell'enorme costo di questa vicenda vanno annoverate le vittime della "Risiera": 5000 uccisi, secondo calcoli approssimati, e forse 20.000 deportati e imprigionati. I nazisti in fuga distrussero con l'esplosivo il forno crematorio la notte dei 29 aprile 1945, mentre le truppe jugoslave erano alle porte di Trieste e nella città si stava organizzando l'insurrezione sia da parte del C.L.N. italiano che delle formazioni comuniste locali. Largo fu l'afflusso di volontari.
Gli storici sono ormai concordi nel giudicare la Venezia Giulia come un "laboratorio" della contemporaneità nell'Europa centrale, vale a dire come un territorio di limitate dimensioni sul quale si sono concentrati in maniera - sfortunatamente - esemplare alcuni dei fenomeni più significativi e devastanti dell'età contemporanea. Ricordiamone solamente alcuni: i contrasti nazionali intrecciati a conflitti sociali; le guerre di massa; gli effetti imprevisti della dissoluzione degli imperi plurinazionali; l'affermarsi di regimi antidemocratici impegnati ad imporre le loro pretese totalitarie su di una società locale profondamente divisa; lo scatenamento delle persecuzioni razziali e la creazione dell'"universo concentrazionario" nazista; i trasferimenti forzati di popolazione capaci di modificare irreversibilmente la configurazione nazionale di un territorio; le persecuzioni religiose in nome dell'ateismo di stato; la conflittualità est‑ovest lungo una delle frontiere della guerra fredda. Una sintesi, potremmo dire, delle grandi tragedie del secolo scorso, concentrata su questo fazzoletto di terra.
Vicende del genere hanno naturalmente generato memorie dolenti, risentite e spesso contrastanti; memorie che talvolta hanno trovato scarso riconoscimento da parte della cultura storica e delle istituzioni italiane, e che anche per questo hanno a lungo rappresentato più che una ricchezza, una piaga difficile da rimarginare. Di fronte al peso del passato, gli autori di questa pubblicazione non intendono certo puntare, con la loro opera, alla costruzione di una sorta di "memoria condivisa", anche perché convinti che le memorie, momento tipico di soggettività e mattone essenziale della ricostruzione storica, non vanno manipolate. Al contrario, riteniamo che al fondo della vita civile e della crescita democratica di una comunità stiano proprio il riconoscimento e il rispetto delle diverse memorie. In questo senso, il percorso che abbiamo disegnato si propone di superare alcune delle semplificazioni più deleterie attraverso le quali propaganda politica e banalizzazione mediatica hanno cercato sovente di presentare le vicende del confine orientale italiano, come ad esempio la contrapposizione tra Risiera e Foibe. La realtà storica è ben più articolata, ma non per questo impossibile d rappresentare.
Il "pozzo della miniera" di Basovizza, pur non essendo una vera foiba - cioè un inghiottitoio naturale tipico dei terreni carsici - è divenuto il simbolo della stagione di morte chiamata "le foibe giuliane". Con tale espressione si intendono le stragi compiute da parte jugoslava nella Venezia Giulia nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945. Il termine presenta alcune ambiguità: solo una parte delle vittime infatti venne effettivamente gettata nelle foibe dopo la fucilazione, mentre più numerosi furono coloro che perirono in maniera diversa o non fecero ritorno dalla deportazione. Stabilire quanti furono gli uccisi è difficilissimo e molte sono le stime in proposito: le più attendibili parlano di 600‑700 vittime nel 1943 - quando ad essere coinvolta fu soprattutto l'Istria - e di più di 10.000 arrestati, alcune migliaia dei quali scomparvero, fra Trieste e Gorizia nel 1945.
Dopo l'8 settembre 1943 l'Istria fu per alcune settimane occupata quasi completamente dalle forze partigiane jugoslave, che proclamarono l'annessione del territorio alla Jugoslavia e procedettero all'eliminazione dei "nemici del popolo". Furono così colpiti esponenti del regime e del partito fascista - talvolta assieme ai loro familiari -, rappresentanti dello stato italiano, dirigenti d'azienda e, più in generale, le figure più rappresentative delle comunità italiane. In una situazione di generale confusione, in cui i contadini croati si sollevarono contro i possidenti italiani, le motivazioni nazionali e politiche delle violenze di massa e la "resa dei conti" con il fascismo, si confusero con elementi di lotta sociale, contrasti d'interesse e rancori personali. La maggior parte degli arrestati fu condannata a morte dopo giudizi sommari e fucilata. I corpi, in alcuni casi assieme a prigionieri ancor vivi, vennero gettati nelle foibe - la più celebre delle quali si trova a Vines, presso Albona - in pozzi minerari o dispersi in mare. Le riesumazioni iniziarono già nel corso dell'autunno, dopo che l'Istria venne occupata dai tedeschi a seguito di un'offensiva che fece migliaia di morti fra la popolazione civile.
Ai primi di maggio del 1945, con il crollo del potere nazista e l'occupazione da parte dell'esercito jugoslavo, la Venezia Giulia fu raggiunta dall'ondata di violenze di massa che si scatenò in tutti i territori jugoslavi, dove la liberazione dai tedeschi coincise con la presa del potere da parte del movimento partigiano a guida comunista. I militari italiani e tedeschi arresisi alle truppe di Tito, decimati dalle fucilazioni sommarie, vennero trasferiti nei campi di prigionia in cui la denutrizione e i maltrattamenti provocarono una mortalità altissima. Per gli italiani, particolarmente famigerato risultò il campo di Borovnica, presso Lubiana. Gli appartenenti alle formazioni collaborazioniste slovene e croate furono invece uccisi tutti.
Quanto ai civili, le autorità procedettero ad una radicale "epurazione preventiva" della società. Nella Venezia Giulia ciò comportò l'arresto in massa dei membri dell'apparato repressivo nazifascista, dei quadri del fascismo giuliano, di elementi collaborazionisti, ma anche di partigiani italiani che non accettavano l'egemonia del movimento di liberazione jugoslavo e di alcuni esponenti del CLN giuliano, assieme ad alcuni slavi anticomunisti e a molti cittadini privi di particolari trascorsi politici ma di sicuro orientamento filo‑italiano. La repressione, oltre a fare i conti con il fascismo, mirava ad eliminare tutti gli oppositori, anche solo potenziali, all'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito. Per questo, nella regione a venir perseguitati furono assai più gli italiani che gli slavi, alcuni dei quali pure trovarono la morte. Infatti, l'assunzione da parte del movimento di liberazione jugoslavo delle tradizionali rivendicazioni slovene e croate sui territori ad est dell'Isonzo aveva in genere fatto superare alla popolazione slava della Venezia Giulia quella diffidenza nei confronti del comunismo che poco più in là, in Slovenia e Croazia, aveva alimentato rispettivamente il movimento dei domobranci e quello ustaa, entrambi duramente repressi nel dopoguerra. Invece, la popolazione italiana era in maggioranza contraria all'annessione alla Jugoslavia, e su di essa pertanto si concentrò l'azione repressiva, per decapitarne la classe dirigente e per intimidire l'intero gruppo nazionale in modo da bloccarne qualsiasi velleità di resistenza. Parte degli arrestati venne subito eliminata, la maggioranza venne inviata nei campi di prigionia, ove trovò sorte simile a quella dei militari. I rimpatri cominciarono alla fine dell'estate per proseguire nei mesi e negli anni successivi, ma di alcune migliaia di detenuti si è persa ogni notizia.
Su quel che effettivamente accadde a Basovizza, le notizie sono incerte. Fra il 29 e il 30 aprile 1945 la località fu teatro di violenti combattimenti tra formazioni germaniche e jugoslave; pare che caduti tedeschi, carcasse di cavalli e materiali militari siano stati sgombrati precipitandoli nella voragine, originariamente profonda più di 200 metri. Successivamente, si diffuse a Trieste la notizia di esecuzioni sommarie avvenute proprio a Basovizza. A seguito di ciò, ritiratesi le truppe jugoslave ed instaurato un Governo Militare Alleato (GMA), nel corso dell'estate le forze armate britanniche compirono nel pozzo della miniera alcuni sondaggi, che però diedero risultati assai scarsi, sia per l'insufficienza dei mezzi impiegati, sia perché nell'abisso era stata gettata un gran mole di materiale di ogni tipo, comprese munizioni inesplose. Anche successive esplorazioni si scontrarono con le medesime difficoltà, e ciò fece sì che si diffondessero le stime più diverse sul numero delle salme effettivamente presenti nella voragine. D'altra parte, notizie raccolte all'epoca dai servizi d'informazione alleati interrogando gli abitanti del posto, parlano di alcune centinaia di appartenenti alla questura di Trieste che sarebbero stati fucilati a Basovizza dopo un processo sommario ed i cui corpi sarebbero stati gettati nel pozzo.
Nel corso degli anni Cinquanta la voragine fu utilizzata come discarica fino a quando, nel 1959, fu chiusa con una lastra di cemento armato per opera del Commissariato generale per le onoranze ai caduti del ministero della Difesa, assieme alla foiba 149 di Monrupino, entro la quale è accertata la presenza di corpi di caduti tedeschi.
Sempre nei pressi di Basovizza, si trova anche la foiba Plutone, di dimensioni assai minori ma rimasta al suo stato naturale e nella quale furono gettati nella primavera del 1945 i corpi di 18 persone arrestate dalle autorità jugoslave e poi uccise da un gruppo di sedicenti partigiani autonominatosi "Squadra Volante", che furono successivamente arrestati dalle stesse autorità jugoslave. Nel 1980 la foiba di Basovizza, divenuta nel frattempo il memoriale di tutte le vittime delle stragi del 1943 e del 1945, venne dichiarata monumento di interesse nazionale e l'area fu sistemata a cura del Comune di Trieste. Nel 1992 la foiba è stata dichiarata monumento nazionale ed una nuova fase di monumentalizzazione, che prevede la copertura in metallo della precedente lastra di cemento e la realizzazione di un centro visite, è stata avviata dal Comune di Trieste nel 2006».
(fn)
«E' un onore per me rappresentare oggi l'Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste di cui faccio parte e presso il quale svolgo le mie ricerche da molti anni, per riflettere insieme a voi sul Giorno del Ricordo a Firenze, città che esprime nella sua storia plurisecolare in termini di eccellenza i valori spirituali più alti di cui può essere capace l'essere umano.
Nel corso del '900 questa città raggiunge livelli di emancipazione politica, sociale e culturale sempre più elevati grazie all'impegno civile espresso dai suoi abitanti.
Firenze è legata a Trieste dal confronto culturale: Scipio Slataper, Giani e Carlo Stuparich, indirettamente Angelo Vivante trovarono proprio a Firenze, nella Scuola Storica di Salvemini: un ambiente aperto ai nuovi orizzonti europei ed alla "cultura militante".
È città accogliente: negli anni della Grande Guerra il capoluogo toscano fu il maggior concentramento di profughi e sfollati del fronte del Friuli. Nel secondo dopoguerra si costituì una comunità di esuli istriani.
Non si possono capire l'affermazione e le vicende della frontiera nell'Italia nord‑orientale se non si conoscono gli elementi della crisi che colpisce questi territori dopo la prima guerra mondiale. Vi si manifestò un ampio processo di manomissione delle strutture di base, sia economiche che sociali, in seguito all'esito del conflitto. Vennero meno attività economiche formatesi in un secolo e più di partecipazione, sia pur non di rado parziale e marginale, al progresso dell'Europa. La dissoluzione dell'Austria‑Ungheria e la crisi della Germania posero fine, per allora, all'afflusso della manodopera friulana negli imperi centrali; l'agricoltura goriziana e istriana perse con l'Austria il mercato privilegiato, dove collocava i suoi pregiati prodotti mediterranei; cadde il sistema protettivo che aveva sostenuto il forte traffico dei porti di Trieste e di Fiume e aveva fatto la fortuna delle due città; Pola perse il ruolo di grande base navale austriaca.
Nel 1919 l'impegno della ripresa gravava quasi tutto sul regno italiano vittorioso. Ma lo stato, e più latamente la società italiana, non erano preparati a questi problemi. Tutta l'Italia nord‑orientale, anche Trieste, erano state viste sino allora col criterio della perifericità, come territori di confine, da curare per la difesa e per l'offesa, più che da organizzare in funzione di una feconda collaborazione internazionale (fenomeno raro nell'Europa delle nazioni); né lo stato italiano era in grado di offrire efficaci strumenti per la continuazione della funzione mediatrice dell'economia giuliana tra Adriatico e Danubio. La drammatica e traumatica esperienza di quattro anni di guerra poneva problemi di ristrutturazione territoriale ed esigenze autonomiste, che però affioravano malamente nel momento in cui la vittoria militare esaltava, in Italia, il ruolo della struttura unitaria dello stato quale strumento di potenza e di iniziativa politica. La struttura di base del regno d'Italia era quella dello stato nazionale centralizzato, ed esso fu limite insuperabile sia per l'esigenza della partecipazione politica, cioè per l'autonomia, che per quella del riconoscimento dei diritti delle cosiddette minoranze etniche.
La situazione dell'Italia nord‑orientale era anche contrassegnata e condizionata dall'intersecarsi, con diverse accentuazioni locali, dei difficili rapporti dello stato italiano con quelli dell'Europa danubiano‑balcanica, sorti dalla dissoluzione dell'Austria.
La crisi scaturente da tutte queste premesse si espresse progressivamente attraverso tensioni sociali e contrapposizioni ideologiche. Nel proletariato urbano l'esperienza della guerra e della rivoluzione bolscevica aveva radicalizzato la sensibilità al marxismo rivoluzionario. Montava, come in tutta Europa, l'antagonismo di classe. Negli sloveni e nei croati che vivevano al di qua delle Alpi sino ai limiti della pianura friulana e, frammisti agli italiani, nella penisola dell'Istria, la svolta che la grande guerra aveva avuto nel 1917, con Wilson e con Lenin, aveva potenziato l'esigenza di libera espressione dei valori nazionali e di indipendenza nazionale, e l'annessione all'Italia fu per loro una dura frustrazione subita nel momento stesso dell'esaltante recupero dell'individualità nazionale; le loro aspirazioni si rivolgevano anche a territori etnicamente non omogenei, talora prevalentemente italiani o altrimenti d'interesse per lo stato italiano.
L'amministrazione locale, spesso inadeguata, acutizzò e non mediò la crisi, e la propaganda nazionalista trovò fertile terreno nella Venezia Giulia, coi suo discorso di rafforzamento dello stato in termini centralistici e corporativi. Il nazionalismo penetrò nei ceti medi inorientati e nei giovani ansiosi, dove duravano esigenza e speranza nell'avvenire economico di Trieste, e si dava credito al senso di potenza che veniva dalla vittoria; offriva un'arma migliore contro il sorgente irredentismo slavo e l'acutizzata lotta di classe, e trovò sostegno in ambienti economici ed anche militari.
Velleità di impero come superamento dei limiti dello stato nazionale. È questa la situazione favorevole all'avvento del fascismo, perché una repressione violenta poteva rinviare la soluzione democratica della questione sociale e di quelle nazionali, mentre esse erano ancora in fase di formazione e di definizione, e la spinta popolare non aveva ancora conseguito piena struttura. Il fascismo diventò protagonista politico a Trieste già nel luglio 1920 e la Venezia Giulia fu, tra le regioni d'Italia, una di quelle in cui venne effettuato il massimo numero di distruzioni e violenze da parte delle squadre in camicia nera. Ne venne un insieme di idee programmatiche che cercavano di riallacciarsi all'irredentismo, all'idea della difesa nazionale, ma soprattutto facevano propri i propositi del nazionalismo imperialista; fu questo il cosiddetto "fascismo di confine". Trieste avrebbe mantenuto il suo ruolo di grande città, e sarebbe diventata conquistatrice del suo retroterra. È su questa piattaforma di linee politiche e di realtà di fatto che poterono svilupparsi tanto l'abdicazione che il consenso delle forze moderate alla nuova destra, che sa ristabilire con la violenza la pace sociale.
Mentre altri stati europei si sono evoluti, in questo secolo, sulla base del principio della partecipazione politica, il fascismo svuotò di rilevanza istituzionale il sistema rappresentativo‑elettivo e le autonomie locali. Il centralismo era in realtà debolezza politica, impossibilità di organizzare positivamente tutte le energie del paese, e il fascismo si dovette occupare soprattutto dell'eliminazione del dissenso. Dopo la crisi economica degli anni '30 sono qui pienamente ribaditi la perifericità, il nazionalismo politico e quello economico e realtà di fatto fu il mantenimento dell'ordine tradizionale in una situazione storica di impoverimento.
Il nazionalismo politico trovò ampio campo di esplicazione nella persecuzione dei gruppi etnici slavi, e questa vicenda costituisce anche un capitolo della storia del regime; la snazionalizzazione fu perseguita mediante un complesso di misure: distruzione della classe dirigente e riduzione numerica delle comunità allogene (si è parlato di 70.000 slavi emigrati); liquidazione delle loro organizzazioni economiche e culturali; soppressione delle scuole slave e della stampa in lingua slava; italianizzazione dei cognomi; reazione violenta ad ogni tentativo di resistenza e di elusione di questi provvedimenti. Se si considera la fondamentale importanza della coscienza nazionale nel mondo contemporaneo, che cioè essa non è un semplice dato culturale e linguistico, ma è irrinunciabile fattore di identità personale, si può ben dire che questa politica fascista fu un tentativo di genocidio culturale.
Si comprende che, nella Venezia Giulia, l'irredentismo sloveno e croato fu la componente maggiore e più consistente dell'antifascismo. Esso effettuò anche azioni dimostrative armate, che provocarono repressioni feroci. In genere, l'antifascismo fu spesso debole, ma sempre diffuso: ebbe varie matrici e portò avanti politiche diverse. Centri attivi di antifascismo esistettero in varie località giuliane e friulane, e pure i circoli di azione cattolica si mantennero vivi e vitali in molte parrocchie. Nelle elezioni politiche plebiscitarie del 1930, la lista fascista ebbe in Friuli oltre 4000 voti contrari, una delle cifre più alte d'Italia. A Trieste, negli stessi anni, troviamo attiva una cellula di "Giustizia e Libertà" e la Venezia Giulia fu anche, in Italia, tra le zone di più costante e meglio organizzato antifascismo comunista. Elemento determinante della vicenda dell'antifascismo giuliano fu il progressivo convergere tra l'opposizione comunista e l'irredentismo sloveno e croato, conforme alla linea politica dei "fronti popolari". Però, strutturalmente, il comunismo italiano della Venezia Giulia appariva il membro più debole di questa intesa.
Infine l'assetto dell'Italia nord‑orientale venne rimesso in discussione dall'imperialismo nazista. Con l'annessione dell'Austria nel 1938 e della Cecoslovacchia nel 1939, l'Europa centro‑orientale entrava a far parte di questo sistema e ciò implicava, a più o meno lunga scadenza, una revisione della posizione internazionale dei territori gravitanti sull'Alto Adriatico.
Il razzismo antisemita alienò molti consensi al regime fascista, specie a Trieste che era sede, sin dai tempi dell'Austria, di una numerosa e influente colonia ebraica, e la maggioranza della popolazione fu contraria all'entrata in guerra dell'Italia. Nel 1941, coll'invasione della Jugoslavia, il programma dell'imperialismo italiano venne messo alla prova dei fatti e l'andamento del conflitto potenziò l'antifascismo e quasi tutta la popolazione dell'Italia nord‑orientale si portò, progressivamente, su posizioni di dissenso. In realtà, coll'invasione della Jugoslavia, il problema della Venezia Giulia diventava uno dei problemi che la nuova guerra doveva risolvere, e l'annessione della Slovenia e di parti della Croazia all'Italia, voluta dal governo fascista, univa automaticamente il destino delle terre slave della Venezia Giulia a quello della Slovenia e della Croazia. Nel moto nazionale popolare jugoslavo di liberazione rivendicazioni nazionali e sociali diventarono un tutto inscindibile.
La situazione dell'Italia nord‑orientale è dunque caratterizzata da un estremo grado di conflittualità. E queste esplodono all'annuncio dell'armistizio italiano, l'8 settembre 1943, anche con gravissimi episodi di furore popolare antitaliano oltre che antifascista, che si sfogò in un alto numero di uccisioni (i fatti delle "foibe"). L'abisso aveva scavato l'abisso (Salvemini), e con abile e pronto inserimento politico e organizzativo in questa vicenda furono i comunisti croati e sloveni ad assumere l'egemonia della lotta per la libertà e per l'unità e l'indipendenza nazionale di queste popolazioni. Questi eccessi, quelli del precedente ventennio, la secolare contrapposizione delle esigenze di italiani e slavi, tutto ciò determinò una profonda spaccatura nelle numerose fila di quanti aspiravano alla libertà, come pure diffuse disorientamento e incertezza, accanto alle grandi certezze.
Così in questa regione, negli anni 1943‑1945, si intrecciano motivi di fondo del secondo conflitto mondiale: la pretesa germanica dei Lebensraum (spazio vitale) e del Nuovo ordine europeo; l'esigenza militare della "fortezza Europa"; gli annosi problemi locali del confine, della depressione e arretratezza economica, della giustizia sociale, della libertà nazionale; il riflusso verso occidente della presenza italiana.
La complessità della situazione fa sì che sia possibile, ai nazisti, individuare spazi di penetrazione e di manovra politica, e anche possibilità di assenso e di collaborazione. In questo quadro la "Risiera" appare solo come uno dei capisaldi del loro sistema di dominio, che si articola non soltanto sulla repressione e il terrore, non soltanto sullo sfruttamento economico e sulla utilizzazione delle contrapposizioni nazionali e sociali, ma anche su promesse di pacificazione e di ripristino dei perduti livelli di produttività economica e di autonomia culturale. Una certa iniziativa politica è consentita agli occupatori, perché nell'ambiente convivono più logiche: quella della ribellione contro padroni antichi e nuovi; quella della vendetta e della difesa da essa; quella del profitto; quella, infine, della sopravvivenza, della paura, della ricerca del compromesso.
In misura non trascurabile la Resistenza, carica di pesi antichi e non sopportabili, era lotta per il potere, oltre che per la libertà, e ciò la portò anche sul piano tragico, dove bene e male spesso sono inestricabilmente congiunti. La lotta per il potere ha prodotto in queste terre ferite terribili, cui è forse impossibile dare conforto; altri luoghi di morte ci sono stati, oltre a questa "Risiera". Ma l'andamento della guerra e la progressiva affermazione del movimento di Resistenza nel suo complesso (nonostante le profonde dissociazioni nazionali e ideologiche che lo percorrono al suo interno), progressivamente ridussero e infine distrussero il sistema nazista di dominio ed i consensi ad esso. Nel movimento sono presenti le forze migliori della società giuliana ed anche, simboli significativi, un'unità della Resistenza tedesca che operò nella Carnia settentrionale (il battaglione Freiheit inquadrato nella Divisione Osoppo‑Friuli) ed un'unità della Resistenza ebraica, che si costituì nell'isola di Arbe.
L'affermazione della Resistenza, pur ponendo nuovi problemi, ha anche posto le premesse per lo scioglimento di antichi e sanguinanti nodi della storia di questi luoghi.
Nell'enorme costo di questa vicenda vanno annoverate le vittime della "Risiera": 5000 uccisi, secondo calcoli approssimati, e forse 20.000 deportati e imprigionati. I nazisti in fuga distrussero con l'esplosivo il forno crematorio la notte dei 29 aprile 1945, mentre le truppe jugoslave erano alle porte di Trieste e nella città si stava organizzando l'insurrezione sia da parte del C.L.N. italiano che delle formazioni comuniste locali. Largo fu l'afflusso di volontari.
Gli storici sono ormai concordi nel giudicare la Venezia Giulia come un "laboratorio" della contemporaneità nell'Europa centrale, vale a dire come un territorio di limitate dimensioni sul quale si sono concentrati in maniera - sfortunatamente - esemplare alcuni dei fenomeni più significativi e devastanti dell'età contemporanea. Ricordiamone solamente alcuni: i contrasti nazionali intrecciati a conflitti sociali; le guerre di massa; gli effetti imprevisti della dissoluzione degli imperi plurinazionali; l'affermarsi di regimi antidemocratici impegnati ad imporre le loro pretese totalitarie su di una società locale profondamente divisa; lo scatenamento delle persecuzioni razziali e la creazione dell'"universo concentrazionario" nazista; i trasferimenti forzati di popolazione capaci di modificare irreversibilmente la configurazione nazionale di un territorio; le persecuzioni religiose in nome dell'ateismo di stato; la conflittualità est‑ovest lungo una delle frontiere della guerra fredda. Una sintesi, potremmo dire, delle grandi tragedie del secolo scorso, concentrata su questo fazzoletto di terra.
Vicende del genere hanno naturalmente generato memorie dolenti, risentite e spesso contrastanti; memorie che talvolta hanno trovato scarso riconoscimento da parte della cultura storica e delle istituzioni italiane, e che anche per questo hanno a lungo rappresentato più che una ricchezza, una piaga difficile da rimarginare. Di fronte al peso del passato, gli autori di questa pubblicazione non intendono certo puntare, con la loro opera, alla costruzione di una sorta di "memoria condivisa", anche perché convinti che le memorie, momento tipico di soggettività e mattone essenziale della ricostruzione storica, non vanno manipolate. Al contrario, riteniamo che al fondo della vita civile e della crescita democratica di una comunità stiano proprio il riconoscimento e il rispetto delle diverse memorie. In questo senso, il percorso che abbiamo disegnato si propone di superare alcune delle semplificazioni più deleterie attraverso le quali propaganda politica e banalizzazione mediatica hanno cercato sovente di presentare le vicende del confine orientale italiano, come ad esempio la contrapposizione tra Risiera e Foibe. La realtà storica è ben più articolata, ma non per questo impossibile d rappresentare.
Il "pozzo della miniera" di Basovizza, pur non essendo una vera foiba - cioè un inghiottitoio naturale tipico dei terreni carsici - è divenuto il simbolo della stagione di morte chiamata "le foibe giuliane". Con tale espressione si intendono le stragi compiute da parte jugoslava nella Venezia Giulia nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945. Il termine presenta alcune ambiguità: solo una parte delle vittime infatti venne effettivamente gettata nelle foibe dopo la fucilazione, mentre più numerosi furono coloro che perirono in maniera diversa o non fecero ritorno dalla deportazione. Stabilire quanti furono gli uccisi è difficilissimo e molte sono le stime in proposito: le più attendibili parlano di 600‑700 vittime nel 1943 - quando ad essere coinvolta fu soprattutto l'Istria - e di più di 10.000 arrestati, alcune migliaia dei quali scomparvero, fra Trieste e Gorizia nel 1945.
Dopo l'8 settembre 1943 l'Istria fu per alcune settimane occupata quasi completamente dalle forze partigiane jugoslave, che proclamarono l'annessione del territorio alla Jugoslavia e procedettero all'eliminazione dei "nemici del popolo". Furono così colpiti esponenti del regime e del partito fascista - talvolta assieme ai loro familiari -, rappresentanti dello stato italiano, dirigenti d'azienda e, più in generale, le figure più rappresentative delle comunità italiane. In una situazione di generale confusione, in cui i contadini croati si sollevarono contro i possidenti italiani, le motivazioni nazionali e politiche delle violenze di massa e la "resa dei conti" con il fascismo, si confusero con elementi di lotta sociale, contrasti d'interesse e rancori personali. La maggior parte degli arrestati fu condannata a morte dopo giudizi sommari e fucilata. I corpi, in alcuni casi assieme a prigionieri ancor vivi, vennero gettati nelle foibe - la più celebre delle quali si trova a Vines, presso Albona - in pozzi minerari o dispersi in mare. Le riesumazioni iniziarono già nel corso dell'autunno, dopo che l'Istria venne occupata dai tedeschi a seguito di un'offensiva che fece migliaia di morti fra la popolazione civile.
Ai primi di maggio del 1945, con il crollo del potere nazista e l'occupazione da parte dell'esercito jugoslavo, la Venezia Giulia fu raggiunta dall'ondata di violenze di massa che si scatenò in tutti i territori jugoslavi, dove la liberazione dai tedeschi coincise con la presa del potere da parte del movimento partigiano a guida comunista. I militari italiani e tedeschi arresisi alle truppe di Tito, decimati dalle fucilazioni sommarie, vennero trasferiti nei campi di prigionia in cui la denutrizione e i maltrattamenti provocarono una mortalità altissima. Per gli italiani, particolarmente famigerato risultò il campo di Borovnica, presso Lubiana. Gli appartenenti alle formazioni collaborazioniste slovene e croate furono invece uccisi tutti.
Quanto ai civili, le autorità procedettero ad una radicale "epurazione preventiva" della società. Nella Venezia Giulia ciò comportò l'arresto in massa dei membri dell'apparato repressivo nazifascista, dei quadri del fascismo giuliano, di elementi collaborazionisti, ma anche di partigiani italiani che non accettavano l'egemonia del movimento di liberazione jugoslavo e di alcuni esponenti del CLN giuliano, assieme ad alcuni slavi anticomunisti e a molti cittadini privi di particolari trascorsi politici ma di sicuro orientamento filo‑italiano. La repressione, oltre a fare i conti con il fascismo, mirava ad eliminare tutti gli oppositori, anche solo potenziali, all'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito. Per questo, nella regione a venir perseguitati furono assai più gli italiani che gli slavi, alcuni dei quali pure trovarono la morte. Infatti, l'assunzione da parte del movimento di liberazione jugoslavo delle tradizionali rivendicazioni slovene e croate sui territori ad est dell'Isonzo aveva in genere fatto superare alla popolazione slava della Venezia Giulia quella diffidenza nei confronti del comunismo che poco più in là, in Slovenia e Croazia, aveva alimentato rispettivamente il movimento dei domobranci e quello ustaa, entrambi duramente repressi nel dopoguerra. Invece, la popolazione italiana era in maggioranza contraria all'annessione alla Jugoslavia, e su di essa pertanto si concentrò l'azione repressiva, per decapitarne la classe dirigente e per intimidire l'intero gruppo nazionale in modo da bloccarne qualsiasi velleità di resistenza. Parte degli arrestati venne subito eliminata, la maggioranza venne inviata nei campi di prigionia, ove trovò sorte simile a quella dei militari. I rimpatri cominciarono alla fine dell'estate per proseguire nei mesi e negli anni successivi, ma di alcune migliaia di detenuti si è persa ogni notizia.
Su quel che effettivamente accadde a Basovizza, le notizie sono incerte. Fra il 29 e il 30 aprile 1945 la località fu teatro di violenti combattimenti tra formazioni germaniche e jugoslave; pare che caduti tedeschi, carcasse di cavalli e materiali militari siano stati sgombrati precipitandoli nella voragine, originariamente profonda più di 200 metri. Successivamente, si diffuse a Trieste la notizia di esecuzioni sommarie avvenute proprio a Basovizza. A seguito di ciò, ritiratesi le truppe jugoslave ed instaurato un Governo Militare Alleato (GMA), nel corso dell'estate le forze armate britanniche compirono nel pozzo della miniera alcuni sondaggi, che però diedero risultati assai scarsi, sia per l'insufficienza dei mezzi impiegati, sia perché nell'abisso era stata gettata un gran mole di materiale di ogni tipo, comprese munizioni inesplose. Anche successive esplorazioni si scontrarono con le medesime difficoltà, e ciò fece sì che si diffondessero le stime più diverse sul numero delle salme effettivamente presenti nella voragine. D'altra parte, notizie raccolte all'epoca dai servizi d'informazione alleati interrogando gli abitanti del posto, parlano di alcune centinaia di appartenenti alla questura di Trieste che sarebbero stati fucilati a Basovizza dopo un processo sommario ed i cui corpi sarebbero stati gettati nel pozzo.
Nel corso degli anni Cinquanta la voragine fu utilizzata come discarica fino a quando, nel 1959, fu chiusa con una lastra di cemento armato per opera del Commissariato generale per le onoranze ai caduti del ministero della Difesa, assieme alla foiba 149 di Monrupino, entro la quale è accertata la presenza di corpi di caduti tedeschi.
Sempre nei pressi di Basovizza, si trova anche la foiba Plutone, di dimensioni assai minori ma rimasta al suo stato naturale e nella quale furono gettati nella primavera del 1945 i corpi di 18 persone arrestate dalle autorità jugoslave e poi uccise da un gruppo di sedicenti partigiani autonominatosi "Squadra Volante", che furono successivamente arrestati dalle stesse autorità jugoslave. Nel 1980 la foiba di Basovizza, divenuta nel frattempo il memoriale di tutte le vittime delle stragi del 1943 e del 1945, venne dichiarata monumento di interesse nazionale e l'area fu sistemata a cura del Comune di Trieste. Nel 1992 la foiba è stata dichiarata monumento nazionale ed una nuova fase di monumentalizzazione, che prevede la copertura in metallo della precedente lastra di cemento e la realizzazione di un centro visite, è stata avviata dal Comune di Trieste nel 2006».
(fn)